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33ª TAPPA: Uppsala

33ª TAPPA: Uppsala

Questa mattina non ho intenzione di farmi fregare, mi sveglio ai blocchi di partenza e copro la distanza tra il letto e il bagno a testa bassa, nemmeno fossi Marcell Jacobs. La mia determinazione non basta, il destino mi mette costantemente i bastoni tra le ruote ma io non mi spezzo. Forse gli episodi negativi successi fino ad ora sono piccoli avvertimenti che però si sommano alle raccomandazioni degli svedesi a cui ho esposto le mie intenzioni di raggiungere capo nord. La risposta è sempre la stessa. Non esiste l’autunno. Ci sono solamente estati brevissime e inverni molto lunghi. Quando capiscono che faccio sul serio i loro volti diventano improvvisamente seri e la raccomandazione è la medesima da parte di tutti: “You have all my respect, but be careful, ice is like fire, you can’t play with them, man”. Lascio Stoccolma con molti dubbi sulla riuscita del progetto che mi fanno pensare, ma non demordere. Dovrò fare molta più attenzione a parecchie cose, sia a quelle che ho previsto che a quelle che non ho considerato. Non è la prima volta che passo parecchio tempo in luoghi glaciali durante la stagione invernale, ma di certo è la prima che li affronto dormendo dentro un sacco a pelo e spostandomi con una bicicletta, esposto alle intemperie che la stagione invernale porta con sé a questa latitudine. I segnali negativi continuano a palesarsi con la frequenza di un metronomo. La gomma della ruota posteriore è a terra. Ci rido su. La smonto e perdo tempo, troppo. Ormai potrei predire esattamente il giorno in cui mi succederà qualcosa. D’altronde quando la sfiga ti sorride, l’unica cosa che puoi fare e sorridergli di rimando, guardandola dritta negli occhi. Non mi spezzo. Riparo il guasto e vado avanti. 

Sono le 13.30 e devo affrontare un ottantina di chilometri di cui i primi quaranta sono praticamente sobborghi di Stoccolma, formati da palazzi di cemento che scalano in altezza verso l’esterno. Questi quartieri si trovano tutti in linea continua con il centro della città. Sono costruiti con un’estetica da aeroporto che incornicia un paesaggio distante, assemblati con materiali traslucidi e gigantesche vetrate. Traspare una poetica abitativa anoressica, replicante, senz’anima, in cui è la componente affaristica a prevalere per batter cassa. 

Vedo grigio, un colore che in questi giorni ancora non avevo percepito, nemmeno a sud, entrando a Stoccolma. Io e questi non luoghi viaggiamo a due velocità diverse. Non esiste un unico tempo assoluto, ognuno ne ha la propria personale misura che dipende dalla posizione spaziale e dal movimento direzionale. Quindi sono io a non essere sincronizzato con questa periferia, sono io che non sono più armonizzato con la società. Qui abita un tempo alienante, ordinato, che va contro natura, essendo questo comunemente disordinato. E’ come se andando verso il futuro si ritornasse al punto di partenza, come se non succedesse mai nulla. Alice chiedeva al bianconiglio “per quanto tempo è per sempre?”. A volte per un secondo. Ecco la sensazione è che qui, un secondo o una vita intera siano dei “per sempre” statici, non elastici, dove le ore non volano sembrando minuti, dove i sogni non durano un’eternità. Un mondo fatto di linee senza punti, dove il principio d’indeterminazione diventa determinato. Un luogo dove tutto si può prevedere e dove non succede mai niente. Questo mondo è un’intercapedine, uno spazio artificiale racchiuso tra due linee che non abbiamo ancora imparato ad osservare. Percepisco l’inesattezza di questo universo in cui le immagini mi sono falsamente famigliari. Questa è un’architettura del paradosso, che riempiendo gli spazi genera il vuoto, diventando espressione riassuntiva di un’epoca senza identità.

Finalmente, dopo l’aeroporto di Arlanda si apre la campagna. La pianura mi angoscia per diversi motivi che ho già spiegato mentre attraversavo trasversalmente il Nord Italia, ma questa volta provo un senso di liberazione. Ora i miei occhi possono di nuovo cogliere i contrasti dei colori, anche se le nuvole li attenuano diffondendo la luce in tutte le direzioni. Non m’importa. Torno a percepire l’elasticità del tempo e sono sollevato. Respiro. Negli ultimi 10 chilometri incontro anche la pioggia, ma mi sono attrezzato a dovere e non m’importa nemmeno di questo.

Arrivo a Uppsala verso le 19. È una tappa con sosta obbligata e programmata da tempo. Qui abitavano gli antichi dei, qui sorgeva il tempio più importante della civiltà norrena. In questo luogo aveva luogo il blòt, un rituale pagano che si svolgeva ogni nove anni in cui si sacrificavano nove maschi e nove femmine per ogni specie, compreso l’uomo, per un totale di 72 vite.

Oggi Uppsala è una cittadina vivace con un importante centro universitario. Mi sistemo in un ostello. Di fronte a me una ragazza sulla trentina mi dice che sta studiando per diventare prete. Nemmeno esiste il femminile di prete in italiano. Scambiamo qualche battuta sulle rispettive differenze di religione ed esco per capire dove sono. Sono circa le nove di sera di un mercoledì qualunque e in giro ci sono solo io. 

“Al principio era il tempo, Ymir vi dimorava. Non c’era sabbia né mare né gelide onde. Non c’era terra né cielo in alto: un vuoto si spalancava e in nessun luogo erba. Finchè i figli di Boor trassero su le terre, loro che Miogaror vasta formarono. Splendette da sud il sole sulle pareti di pietra; allora ricoprì il suolo di germogli verdi. Con la forza da sud il sole, compagno della luna, stese la mano destra verso l’orlo del cielo. Il sole non sapeva dov’era la sua casa; le stelle non sapevano di avere una dimora; la luna non sapeva qual era il potere. Andarono allora tutti i potenti ai seggi del giudizio, gli altissimi dei, e tennero consiglio: alla notte e alle fasi lunari nome imporre; al mattino dettero un nome e al mezzogiorno, al pomeriggio e alla sera per contare gli anni.”

Così recita la cosmogonia norrena. L’edda di Snorri, il libro sacro, quello in cui sono contenute le gesta degli dei che hanno sostenuto e terrorizzato gli abitanti di queste terre per secoli.

In questa provincia si possono trovare più rune che in qualsiasi altro territorio scandinavo e questo dimostra la sacralità del luogo. Cerco di connettermi con questa terra, chiudo gli occhi e respiro. Nella mia mente prende vita una dimensione fredda, fatta di ritratti senza volto di un epoca passata. Dal mio inconscio sale una protesta visiva all’eccesso di rappresentazione odierna. Forse è così che il mio corpo sta cercando di leggere questo spazio, esasperando la ridondanza della modernità e la sua eccedenza di narrativa. Così in una zona ideale della mia mente prendono vita figure sbiadite. Le  mie percezioni non sono in grado di gestire le immagini reali e quelle immaginate. Il vuoto che mi circonda si riempie stimolando tutti i mie sensi, ma solo dentro di me.  Le rune mi trasmettono le vibrazioni della terra e le condizioni ostili della natura di questi luoghi. Il potere concentrato nelle pietre, nato dai racconti, mi sussurra significati che devono essere interpretati dalla lettura delle tre Norne, le Parche che abitano al nord. Mi trovo a Gamla Uppsala, un’area di resti antichi che include tre grandi colline chiamate “Le pire dei Re”. Vorrei saperne di più. Incontro due archeologi al lavoro su uno scavo e con loro sfogo tutta la mia curiosità. Non hanno molto tempo da dedicare alle mie domande, ma dopo averne piazzate un paio specifiche sui matrix di Harris e l’interpretazione delle unità stratigrafiche, la direzione della curiosità s’inverte e il loro atteggiamento cambia.

C’è stato un tempo in cui si credeva che i Royal Mounds fossero opera del dio Freyr e che i suoi discendenti, i re Aun, Egil e Adils, vi fossero sepolti. La tomba sulla mia sinistra è stata chiamata “tumulo di Freyr”, mentre quella centrale, che ho di fronte, è identificata come il “tumulo di Odino”. Entrambi sono stati scavati nel secolo scorso e sono datati intorno al 500 a.C., ma un’indagine recente li considera più vecchi almeno di cento anni. La maggior parte degli oggetti indica una sepoltura maschile ma le ossa ritrovate sono quelle di una donna, ipoteticamente identificata come una Valchiria sacrificata alla morte del re per accompagnarlo nell’al di là. Forse i resti del sovrano devono ancora essere trovati. I reperti includono i frammenti di un elmo, mentre la pira funeraria conteneva resti di ossa animali. Alcuni di questi sono stati sacrificati come compagni di viaggio, altri tagliati per essere utilizzati come provviste per il viaggio. 

Dopo questa spiegazione ci scambiamo i contatti, spiego loro il mio progetto e mi dicono scherzosamente che non ci sono tumuli a Uppsala per chi compie imprese eroiche. Frecciatina. Accenno un ghigno, ringrazio e torno in città.

Da lontano vedo chiaramente i due campanili della cattedrale gotica più grande di tutta la Scandinavia che s’innalzano, rendendo tutto il resto superfluo. Non è un caso che la cristianità abbia costruito il suo centro più importante nel luogo solenne del paganesimo norreno. Torno in albergo e rileggo gli appunti, il tempo passa.

Giovedi ore 4.34

Vengo svegliato dalla pioggia. la mattina dovrei riprendere il mio viaggio, ma un conto è trovarsi sotto l’acqua e un altro è partire con il diluvio. Sapevo già che il mal tempo mi avrebbe rallentato ma mi trovo a circa 2000 km dalla metà ed è già metà settembre. Decido comunque di fermarmi. Mi sveglio alle 8.00 faccio colazione e passo tutta la giornata e rivedere i miei appunti. La pioggia scende talmente forte che in strada non si può nemmeno camminare. Domani dovrò mettermi in viaggio comunque.

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