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25/26ª TAPPA: JARNAVIK e KARLSKRONA

25/26ª TAPPA: JARNAVIK e KARLSKRONA

Oggi è stata una pessima giornata! L’umidità del lago ricopre la tenda. Fortunatamente questa fa il suo lavoro in modo egregio e l’acqua non oltrepassa la membrana di protezione, ma il freddo penetra all’interno e passa dentro il sacco letto. Mi sveglio verso le 5.30 con le gambe intorpidite. Cerco di rannicchiarmi il più possibile per evitare dispersioni di calore, ma alla fine mi arrendo. Smonto tutto e riparto. Alle 7.00 sono già in sella.

Non voglio ripetere questa esperienza, così decido di perdere una giornata intera per spostarmi verso la costa, dove spero ci sia un clima differente. Sarò costretto ad allungare il percorso di due, forse tre giorni. La scelta è tra il freddo e l’umidità, o il vento di una costa frastagliata, quindi irta. Ho optato per la seconda. Ogni volta che mi dirigo verso il mare ho la sensazione di liberarmi. Accanto a me sfilano i boschi all’infinito, la potenza della natura svedese è disarmante. Lascio l’entroterra e comincio a vagabondare lungo i fiumi risalendoli verso nord come fanno i salmoni. Il vagabondaggio è la chiave d’accesso al mondo.

Sono partito da Osterslov la mattina presto e sono arrivato a Jarnavik nel tardo pomeriggio. Non avrei avuto null’altro da aggiungere, ma Jarnavik è un paradiso terrestre e merita che qualcuno lo riconosca.

Monto la tenda in un prato dentro il porticciolo deserto, costruito dentro un’insenatura che rende il mare una tavola piatta. E’ un luogo davvero incredibile. Cerco di uscire dai limiti delle linee, dalla soglia del dentro e del fuori che le visioni impongono, per capire l’anima del posto. Le cose stanno ferme quando sono colpite dalla luce del tramonto, mi addentro con lo sguardo nello spazio e cerco un punto riconoscibile, da qui provo a ricostruire il mondo. La luce al declino del giorno è vulnerabile, si trova in una condizione di disfacimento che non consente all’immagine di formarsi chiaramente. Le linee non sono più limiti, la nettezza dei contorni non è più esaltata dai colori. La risonanza cromatica cambia il rapporto tre figure che non possono più formarsi in un’immagine. La luce del giorno rende stabili le apparenze, quella del crepuscolo riporta lo spazio in una dimensione vuota e il vuoto richiama sempre la nostra attenzione.

L’alba diventa pieno mattino, alcune oche arrivano in volo sotto la volta dei rami. Si aggirano in mezzo ai tronchi, volando con estrema lentezza. Nell’ombra degli alberi, le bianche ali risplendono riflettendo la luce. Per un po’ scende la quiete. Un silenzio che è una distensione, un luogo in cui si espande la dimensione più intima della vita. I pensieri materici sono già fuori dalla tenda. 

Con uno sforzo di volontà la chiudo per rincorrerli, prima che svaniscano del tutto nel meriggio.

Parto tardi e la tappa non è lunga, la strada sulla costa è piena di sali e scendi che non danno tregua alle gambe. Ormai mi è chiaro che per effettuare distanze medio lunghe devo partire all’alba.

In mezzo ad una folta foresta sempreverde intravedo una striscia di mare. L’acqua riflette i raggi del sole che diventano a tratti accecanti. Lungo la strada non incontro nessuno, nemmeno una macchina. L’unico rumore meccanico che sento è il cigolio della mia bicicletta la quale mi averte quotidianamente che il peso che trasporta è decisamente eccessivo. Nella vita ho sbagliato strada un’infinità di volte, ma sono sempre riuscito a trovare una soluzione, seppur temporanea, ai problemi che mi hanno investito. 

Questa volta sono sicuro. La strada giusta è quello verso Nord.

Mi fermo nei pressi di Karlskrona e trovo un punto per accamparmi sempre in riva al mare. In lontananza un albero cattura la mia attenzione. Mi farà compagnia. L’albero guarda il mare da più di cento anni. Non ha alcun rapporto con l’orizzonte che ha di fronte anche se si penserebbe il contrario. Mi sdraio e osservo le fronde che si muovono al vento. Dopo qualche minuto, mi allontano per scattare una foto e noto l’albero, in una posa silenziosa che congela infinite porzioni di realtà, da un tempo che nessuno può ricordare. 

L’atto di guardare è una tensione che si sviluppa tra chi guarda e chi viene guardato e non è una prerogativa umana. Osservare è un’apertura che presuppone accoglienza. E’ un percepire ed essere percepiti allo stesso tempo. Ma è un atto che si ferma allo sguardo. È impossibile varcare la soglia dell’anima di un oggetto,  se questo non si apre. E’ un pò sentire ed essere sentiti. Una magia che impone di fantasticare chi o cosa si osserva, che richiede lo studio di una lingua della natura che va cercata nei segni che questa propone, per poi codificarli in poesia.

Come ha scritto Aldo Palazzeschi: “muoiono i poeti / ma non muore la poesia / perché la poesia è infinita / come la vita”.

Anche questa notte vedo brillare la volta del cielo mentre sono osservato dalle stelle. Le case in lontananza sembrano dipinte in maniera sommaria e non creano un ambiente geometrico lineare. Non c’è profondità nello spazio. L’orizzonte è basso e il cielo occupa la maggior parte del mio campo visivo. Una vasta gamma di blu e azzurri mi riempie gli occhi. La volta appare come un soffio colorato di blu oltremare, mentre tutto il resto è nero.

La luna e le stelle risaltano grazie ai colori complementari del giallo e  dell’arancio, creando un’atmosfera in bilico tra il sogno e una realtà del tutto personale.

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